Il libro di Massimiliano Papini da cui trae spunto questo
post, Fidia. L’uomo che scolpì gli dei,
edito nel 2014 da Laterza, è uno studio molto bello di autentica Storia
dell’arte antica; un saggio rigoroso ma molto piacevole da leggere: portando
alla luce, tra le altre cose, la grande modernità delle opere di Fidia, si pone
come lettura consigliabile a chi non abbia piena coscienza della complessità
dell’arte greca. Un libro per specialisti ma anche per studenti alle prime
armi.
Dunque mi sento in colpa per il fatto che, lungi dal voler
essere una recensione, questo post sarà soprattutto una piccola discussione su
alcuni degli snodi metodologici che Papini, sempre nel pieno della concreta indagine
storica su Fidia e l’arte del suo tempo, porta alla luce.
L’arte greca è un enorme problema metodologico: come la
possiamo studiare? Papini ricorda che, a causa delle tante distruzioni, «la
storia dell’arte antica è un’archeologia delle assenze» condotta in larga parte
non sugli originali, ma sulle copie: sono le copie di epoca romana a costituire
la gran parte del corpus materiale della scultura greca.
Tutto ciò è di una problematicità enorme: perché se è vero
che siamo ormai giunti a un punto in cui riusciamo a distinguere le copie dagli
originali[1], come possiamo, dalle
copie, giungere all’originale? Quanto possiamo fidarci delle copie e della loro
fedeltà? E se di una stessa opera abbiamo più copie diverse, quali dobbiamo
scartare in quanto infedeli? Inutile dire che, a onta di tutte le conquiste
degli studi, le divergenze tra gli studiosi sono una costante.
Il punto che mi interessa è però un altro: tutto ciò non
deve indurci a una salutare diffidenza nei confronti dell’occhio, e dunque di
quel vedere e rivedere tanto
giustamente fondante per gli storici dell’arte?
![]() |
Copia dell'Atena Lemnia di Fidia, età di Tiberio/Claudio. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen |
In un saggio magistrale su Gentile da Fabriano e la sua
influenza sull’arte italiana, Andrea De Marchi, uno dei nostri migliori storici
dell’arte, in un passaggio molto importante sostiene un «vigoroso richiamo alla
specificità disciplinare della storia dell’arte, che rischia di essere sempre
meno posseduta e praticata»[2]: la specificità di cui
parla è l’analisi stilistica, e di conseguenza la pratica dell’attribuzione.
Ma se il testo figurativo che studiamo non è l’originale,
come possiamo fidarci dei dati stilistici che esso ci mostra? Come possiamo
esser certi che la copia dell’Atena Lemnía
di Dresda sia la più fedele all’opera di Fidia? Ecco allora che, nel caso
specifico di tanta scultura greca, l’occhio, il vedere e rivedere, l’analisi stilistica, non bastano più. Anzi,
sono almeno in parte in posizione di fuori gioco. Papini parla di «un rompicapo
che svela i limiti dell’analisi affidata all’occhio degli esperti, finanche
nella distinzione tra originali e copie in marmo; il paradosso è che potremmo
finalmente stare davanti a qualcosa di veracemente fidiaco senza strumenti per
accertarlo!»
L’arte greca, quindi, diventa per la disciplina Storia dell’arte e per alcune sue
certezze metodologiche un vero e proprio blackout.
Un blackout molto istruttivo, perché può insegnarci come
approcciare opere di periodi successivi che siano distrutte e conosciute attraverso
copie. In un saggio di una mediocrità disarmante, Herbert L Kessler[3] arriva a svalutare
nientemeno che Giotto, a farne addirittura un “passatista e retardataire” (e se usi questi termini in
riferimento a Giotto devi essere ubriaco), per una lettura storica tutta da
rigettare basata anche su una analisi stilistica condotta sulla copia
seicentesca del perduto mosaico della Navicella!
Svalutare uno come Giotto in base a una copia: non c’è bisogno di aggiungere
altro.
![]() |
Francesco Beretta, copia della Navicella di Giotto, 1628. Fabbrica di San Pietro, Roma. |
Ma allora, nel caso dell’arte greca, la pratica dell’analisi
stilistica è da rigettare? Niente affatto![4] Lo stesso Papini ricorda
che, nonostante «un’ideologia anticonoscitiva» di una parte degli archeologi
attuali, «al di là dei tanti appunti ora legittimi ora meno, è tramite
l’attribuzionismo che la storia dell’arte antica ha acquisito al catalogo degli
artisti opere capitali come il Doriforo di Policleto».
Il punto, allora, è che ancora una volta abbiamo la
dimostrazione che la Storia dell’arte, in quanto disciplina scientifica, a
prescindere dai diversi momenti storici indagati, non può che procedere
attraverso quella metodica del dubbio
(di cui vi ho parlato per esempio QUI,
QUI e QUI) che unisca e faccia interagire i diversi sistemi di
analisi dell’oggetto artistico; in estrema sintesi, lo storico dell’arte deve
essere insieme connoisseur, sociologo e iconologo (e anche altro, se serve),
seguendo l’insegnamento che, nel campo dell’arte antica, ha offerto Ranuccio
Bianchi Bandinelli: secondo lo studioso è vero che la disciplina storico
artistica ha nell’analisi visiva la sua specificità, ma è altrettanto vero che i
dati formali che da essa si traggono «rimangono pure e semplici constatazioni,
se noi non li poniamo in stretto contatto con la società umana del tempo, vista
nella complessità delle sue componenti»[5]; inoltre egli ricordava
come «spesso il seguace di uno di questi sistemi di indagine tendeva a
escludere come valido ogni altro sistema. Invece a noi è sembrato, di volta in
volta, che ognuno di essi ci sia servito per comprendere un aspetto particolare
dell’opera d’arte»[6].
Ogni ramo della Storia dell’arte dovrebbe dunque trovare il
mezzo d’analisi più adatto (ma che non sia unico!) allo specifico ambito
tematico/cronologico che indaga – così, se gli studi giotteschi devono trovare
nel vedere e rivedere il momento
specifico e centrale (ripeto, non unico!), lo stesso non si può dire per ambiti
in cui, per contingenze esterne (l’arte greca largamente distrutta) o interne (tanta
parte dell’arte del secondo Novecento e attuale), l’ambito del visivo perde la sua centralità.
Si potrebbe concludere: ogni specifico ambito della lunga, multiforme
e mai uguale storia delle arti figurative, abbia il suo specifico metodo. Una
conclusione problematica di cui, lo ammetto, non sono affatto convinto[7].
[1] E questo
deve essere stato un progresso storiografico lungo e problematico: si
ricordino, come esempio paradigmatico, i numerosi errori attributivi del
fondatore della moderna Storia dell’arte antica, Winckelmann. Un bel libro
recente ed esaustivo su questo tema fondante è Originale e copia nell’arte antica di Marcello Barbanera,
pubblicato nel 2011 da Tre Lune.
[2] A. De
Marchi, Gentile e la sua bottega, in
A. De Marchi, L. Laureati, L. Mochi Onori (a cura di), Gentile da Fabriano. Studi e ricerche, Electa 2006
[3] H.L.
Kessler, Giotto a Roma. Il saggio è
contenuto nel voluminoso catalogo, tutto sommato non certo imprescindibile,
della mostra a cura di Alessandro Tomei Giotto
e il Trecento, pubblicato da Skira nel 2009.
[4] Non
posso che raccomandare la lettura di un saggio fondamentale di Tonio Hölscher, Arte e società: il progetto di Bianchi
Bandinelli per la generazione dei nipoti, contenuto negli Atti dell’importante
convegno Storie dell’arte antica nell’ultima
generazione: tendenze e prospettive, pubblicato nel 2004, a cura di
Marcello Barbanera, dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.
[5]
R.B.Bandinelli, Introduzione all’archeologia come storia dell’arte antica, 1976 –
il libro è disponibile in libreria nell’edizione di Laterza.
[6]
Riportato nel fondamentale volume di Marcello Barbanera Ranuccio Bianchi Bandinelli. Biografia ed epistolario di un grande
archeologo, Skira 2003. Barbanera, per spiegare la complessità della
metodologia di Bianchi Bandinelli, usa l’efficace metafora del poliedro.
[7] Se e
quando avrò le idee più chiare su questi temi metodologici/teorici (che, a dire
il vero, al momento mi interessano molto poco) ve ne parlerò in un post che sto
cercando di scrivere da un po’ di tempo. In ogni caso, non sono affatto sicuro
che l’ambito della Storia dell’arte in quanto disciplina scientifica sia
quello, troppo vasto, del visibile.
Immagine 1 da Atlante dell'arte italiana ; immagine 2 da Web gallery of Art
Immagine 1 da Atlante dell'arte italiana ; immagine 2 da Web gallery of Art