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Pietro da Rimini, Croce dipinta. Urbania, Cattedrale. E' l'unica opera firmata dell'artista |
Scrivere
di Pietro da Rimini. L'inverno della critica di Alessandro Volpe,
pubblicato un anno fa da Skira, non è affatto semplice per diversi
motivi: si tratta di un libro complesso, che mescola la ricostruzione
del catalogo di un artista a momenti schiettamente teorici inerenti
lo statuto disciplinare della Storia dell'arte. Come l'autore spiega
nell'introduzione, e come del resto risulta chiarissimo leggendo, non
siamo di fronte a una monografia tipica, ma, verrebbe da dire, a un
ibrido di non facile classificazione.
A
questo si aggiunge il fatto che, a segnalare ancora l'alterità di
questo libro e la sua difficile riduzione alle etichette dei generi
letterari della Storia dell'arte, Pietro da Rimini. L'inverno della
critica è anche una coraggiosa ammissione di un coinvolgimento
personale nel problema storiografico “Pietro da Rimini”:
Alessandro Volpe è figlio di Carlo, grande conoscitore tra i maggiori studiosi di pittura riminese del Trecento, e ha
avuto tra i suoi maestri Miklòs Boskovits, autore di pagine che su questi temi hanno segnato un decisivo momento di svolta. E' tra
queste due polarità, al cui ricordo sono dedicate pagine tra le più
intense del libro, che Volpe si muove, con una presa di posizione
netta che spiega certe reazioni isteriche che questo volume ha
sollevato: semplificando, nello specifico del catalogo di Pietro
siamo di fronte a un ritorno programmatico alle posizioni
“restrittive” di Carlo Volpe, e di conseguenza a una polemica
diretta ed esplicita contro il catalogo “allargato” che, sulla
scia di Boskovits, si è imposto negli studi recenti. Un problema
che, secondo l'autore, riguarda non solo Pietro, ma anche un altro
grande protagonista del Trecento riminese, Giovanni Baronzio.
Ma
andiamo con ordine.
Partendo
dal piano teorico – che è poi intrinsecamente legato al discorso
su Pietro da Rimini - è insistito il riferimento di Volpe a Walter
Benjamin, il che porta alla necessità, sentita e ribadita più
volte dall'autore, di problematizzare, sottoponendolo a dubbio, il
metodo più tipico della Storia dell'arte: quello dell'analisi
stilistica, e dunque della connoisseurship. Qui è l'interesse e il
tema di fondo del libro.
Il
problema principale che, mi pare, Volpe vuole portare in luce
riguarda “l'evanescenza di un pensiero critico riguardante qualità
e consistenza poetica dell'opera d'arte nell'attuale comunità
scientifica”, per cui somiglianze formali tra opere diverse portano
ad attribuzioni a uno stesso nome senza badare troppo alle differenze
di qualità. Il criterio della “qualità”, insomma, dovrebbe
porsi come discriminante quando ci si trova di fronte a opere d'arte
dai tratti formali comuni.
Tutto
ciò mi sembra, sulla carta, senza dubbio condivisibile, ma a mio
avviso solleva un problema di non poco conto: la scivolosità del
concetto di “qualità”, tra gli altri denunciato – e cercato di
chiarire – da grandi studiosi come Giovanni Previtali e Giuliano
Briganti. Il punto è: il ciclo di San Nicola a Tolentino per Tizio
può essere qualitativamente alto, o almeno alto a sufficienza da
permettere l'attribuzione a un grande pittore come Pietro da Rimini,
mentre per Caio può essere qualitativamente basso, o comunque non
abbastanza alto da permettere l'attribuzione a un grande pittore come
Pietro da Rimini.
Come
risolvere questa impasse teorica e pratica? A mio avviso, data la
soggettività a cui facilmente si incappa pensando in termini di
“qualità” (o di “sostanza poetica” che dir si voglia), a
maggior ragione quando parliamo di opere importanti, non è il caso
di assolutizzare questo concetto, ma di valutare caso per caso in
base agli elementi che l'opera ci pone di fronte. Così, per quanto riguarda Tolentino, il fatto che ci siano zone di qualità superba che si affiancano ad altre
qualitativamente più blande, secondo me autorizza, insieme alle
risolutive affinità formali con altre opere di Pietro, ad attribuire
quel ciclo al grande pittore riminese, coadiuvato in maniera più o
meno larga dalla bottega: una collaborazione che spiega gli eventuali abbassamenti qualitativi e certe divergenze formali.
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Pietro da Rimini e bottega, Resurrezione di Filippa Barraca da Fermo, particolare. Tolentino, Basilica di san
Nicola da Tolentino, Cappellone |
Anche quando si possa giungere a un equilibrio tanto complesso, non è comunque garantito che la connoisseurship non giunga a risultati contraddittori: nel caso del Trecento riminese - come in tanti altri casi, del resto - la rilevazione che a una gran quantità di nomi di pittori corrispondono un numero molto limitato di opere sopravvissute non può che provocare un certo imbarazzo. Ma allora bisogna decidere se è il metodo stesso della connoisseurship a essere lecito per studiare un ambito artistico del genere; se, per fare altri esempi, i distrutti affreschi di Santa Maria in Porto Fuori a Ravenna o quelli in San Pietro in Sylvis a Bagnavacavallo si possano studiare giungendo a un'attribuzione per via di connoisseurship: se lo si fa, se si decide di correre il rischio di farlo, allora - almeno a mio avviso - il nome di Pietro da Rimini come autore dei dipinti mi pare francamente ineccepibile, e zone come la magnifica teoria di Apostoli di Bagnacavallo non potranno che considerarsi tra i massimi capolavori dell'artista.
In tutta onestà credo che, se bisogna rimproverare a Boskovits la propensione ad allargare troppo i cataloghi dei singoli artisti, nel caso della pittura riminese lo si debba fare per il grande Giovanni da Rimini (un allargamento che tuttavia non ha avuto piena fortuna nella storiografia), ma non per Pietro: personalmente non trovo molto da espungere dal suo corpus (ammetto qualche dubbio per gli affreschi dell'abbazia di Pomposa), e credo che il tema su cui ancora si debba dibattere riguarda le cronologie, a mio avviso in buona parte incerte, delle sue opere - se cioè davvero Pietro sia da posticipare troppo rispetto alla prima generazione dei pittori riminesi, quella dei fratelli Giovanni, Giuliano e Zangolo.
Forse
- e apro una parentesi più generale – un problema degli studi che
si occupano di pittura del Medioevo è quello di tenere poco
in considerazione la dimensione, fondativa e ineliminabile per questo
periodo, del cantiere, che rende le questioni attributive più
complesse e sfumate. Un esempio: dichiarare “mai esistito” il
Parente di Giotto – una delle più importanti intuizioni di
Previtali – vuol dire adagiarsi su
un concetto di autografia tanto largo e generoso da non vedere le
diverse sfaccettature esecutive
che la prassi di lavoro nella bottega medievale
lascia costantemente
affiorare, e di cui gli
affreschi giotteschi della Basilica inferiore di Assisi sono esempio
lampante.
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Pietro da Rimini e bottega, San Michele decapita l'Anticristo, già Ravenna, Santa Maria in Porto Fuori |
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Pietro da Rimini, Apostoli. Bagnacavallo, San Pietro in Sylvis, dettaglio dell'abside |
D'altronde
il fatto che spesso si
creino accorpamenti troppo larghi di opere date a uno stesso artista in base a vicinanze formali spiegabili in modi diversi è un
appunto tutt'altro che campato in aria: a maggior ragione quando
questo avviene in un ambito come
il Medioevo, vittima
di distruzioni vastissime che ci offrono un panorama estremamente
frammentario di opere e di
artisti, e in cui la
circolazione di modelli creava una maglia fittissima di riferimenti
incrociati (fenomeni particolarmente evidenti anche nella pittura riminese di primo Trecento). Penso, per fare
qualche nome, all'accorpamento nel catalogo unico del cosiddetto Maestro dei crocifissi francescani delle Croci giuntesche di area umbra ed emiliana,
o a casi come quello del dossale di san Francesco nel Museo del
Tesoro di Assisi, attribuito a Giunta Pisano in base a quella
che sembra non più che una supposizione
sul modo ipotetico in cui Giunta avrebbe potuto dipingere dopo il 1250.
Bisogna,
io credo, mantenere un equilibrio (precario, difficile, incerto, ogni
volta esposto a rischi) tra il rilevamento dei dati formali e
stilistici e la loro giusta decifrazione storica, che può
anche implicare una revisione del nostro modo di intendere la
“qualità” complessiva di un artista. Un esempio di quest'ultima
necessità è per esempio
proposto dai meravigliosi affreschi della navata destra della
Collegiata di San Gimignano che, dimostrata l'inesistenza di
“Barna”, e
vista l'evidenza dei dati stilistici,
testimoniano che Lippo Memmi era
ben fornito di quella
levatura artistica che l'attribuzione sviante a “Barna” (e non meno sviante è a mio avviso Tederigo
Memmi) gli negava.
Facendo
un discorso più ampio, mi
sembra sia chiaro che la disciplina “Storia dell'arte” nel
suo complesso vive
di dibattiti, ipotesi aperte, problemi che si credevano risolti e che
ciclicamente ritornano: credo siano davvero poche le
certezze assolute in questo campo di studi – soprattutto
in quello della Storia dell'arte medievale -, a
prescindere dalla sicurezza
che il singolo studioso può esibire. Non saprei dire se una tale ridda di ipotesi dissonanti si possa intendere
come sintomo di buona
salute: giunti quasi al 2018, si dovrebbe essere in grado di
discernere, almeno per i temi su cui più si è
scritto, tra le ipotesi giuste e quelle sbagliate;
si dovrebbe per esempio poter affermare senza troppi patemi d'animo che Pietro Cavallini non ha mai dipinto nella Basilica di san Francesco ad Assisi, e che sperare di dimostrare il contrario con
l'ausilio della Computer
grafica è una cosa che lascia il tempo che trova.
Siamo
insomma ben lontani dalla pretesa – accolta con preoccupazione da
Alessandro Volpe - di poter “affermare cosa realmente accadde nel
Trecento” a Pietro da Rimini e a tanti altri artisti di quello e
altri secoli; ma, a parte il fatto che mi sembra normale che uno
storico abbia una aspirazione del genere, mi chiedo quali dovrebbero
essere le alternative valide per la ricerca storica. Non, mi auguro,
le fantasie astrattizzanti,
oggi tanto di moda, di un Didi-Huberman, per
cui la Storia dell'arte dovrebbe ridursi a una disciplina
“immaginativa” che inventa
legami fittizi e “sopravvivenze” inesistenti tra epoche e fatti
artistici che tra loro non c'entrano niente.
Concludendo,
mi permetto un ultimo
appunto.
Anche
chi non ha letto il libro ha
ormai capito che esso è il frutto di una riflessione molto personale
e decisamente problematica. Se
però lo si legge tenendo bene in mento questo fatto, e quindi
prendendo un minimo di distanza prudenziale dai punti più
controversi, esso può costituire un ottimo avvio allo studio di quel
pittore grandissimo che fu Pietro da Rimini: perché larga parte del
volume - peraltro riccamente illustrato - è, in sostanza, una discussione delle opere principali che
girano intorno a questo pittore e un ragionamento senza troppi peli
sulla lingua (che ai diretti interessati apparirà persino
provocatorio) sull'intera
storia critica, passata e attuale, dell'artista.
Si tratta, quindi, di
riflessioni orientate e
controcorrente, ma che
possono servire come punto di partenza per uno studio personale.
D'altronde, le pagine dedicate specificamente ai dipinti di Pietro o
a lui attribuiti, sono spesso di indubbio fascino letterario e
valore critico.